FUOCHI DI PRIMAVERA


 In primavera, quando i puledri corrono sui prati a gara col volo degli uccelli e con le rinnovate correnti marine lungo i sonori antri garganici, i cieli si aprono a una festa che è nell'aria e nelle cose, e raggiunge le più oscure valli che vi partecipano con una esultante accensione di fuochi inneggianti al buon tempo e al ritorno del sole.
Tu non chiedermi, o mio svagato viaggiatore, rabberciate notizie di etimo che potrebbe fornirti qualche saccente persona del luogo per nascondere un vuoto d'animo dietro appariscenti ma piatte notizie di tradizioni, di leggende o di storia. Queste ottusità si addicono a chi nulla sente o sa sentire, perché non sai poi se una spiegazione saputa faccia aprire la bocca per un'esclamazione di meraviglia o di distratto sbadiglio.
Appunto qui la tua ricerca di sensazioni nuove e autentiche avrà sicura soddisfazione. A questa inaugurazione della primavera il pio popolo si prepara con coscienza e lunga mano, facendo, durante il viaggio dell'inverno, le sue prove per quell'esplosione definitiva tra marzo e aprile. Si tratta prima cioè di falò isolati (le "fanoie"), in onore di Santi e sono come tentativi, promesse e ansiose attese del tempo nuovo.
San Biagio: e il suo isolato falò che una volta brillava sulla piazzetta della mia chiesina e che ora brilla solo nella mia memoria. San Giuseppe: e già i fuochi ardono immobili in tutti i rioni e in tutte le strade.

Le quali, nel loro simmetrico divallare, meglio permettono al visitatore, in una circolare passeggiata nel borgo, di vedere questi falò allineati, prima dell'accensione, come sparse e numerose tende di un pacifico esercito pronto ad un canoro bivacco.
E poi i mobili fuochi delle "fracchie" la sera dell'ultima Cena e in occasione del doloroso errare della desolata Madre.

Forse questa trepidazione di attesa è meglio presentita da un infantile motivo musicale: è lo scorrere del tempo, che a primavera precipita ed estua nel gran golfo della luce. Esso è affidato al ronzio dei cerchi dei bimbi garganici che, abili e alipedi, li guidano lungo le difficili vie del paese montano. Arcana velocità convergente di suoni, di luci, di colori e ardori. E così sbocciano fiori nei prati, suoni nelle mani dei bimbi e fuochi nelle valli.
"Fanoie e Fracchie": sapida affabulazione di cose buone, fatte di tempo, di venti e di nulla, nella mente del nostro popolo, nella fantasia schietta dell'umanità senza nome. Sentirai allora, innanzitutto, e sarà la tua prima scoperta, un odore diffuso di rose mezze, di uva passila e di gelsomini: è l'odore del legno preparato da lungo tempo per la gran festa.
Odore di legno che, come il pane, ci accompagna confortevole dalla culla alla tomba; e come il pane è presente in tutte le nostre feste, pubbliche e domestiche, soprattutto da Natale a Pasqua: le due feste cristiane, che, nella saggia distribuzione liturgica dell'anno, chiudono la stagione invernale in due solenni parentesi.
Le ignee tende, le fanoie di San Giuseppe, e, otto giorni dopo, quelle dell'Annunziata, son divenute fracchie e cioè cannoni di ogni calibro per l'ultima battaglia contro l'inverno e annunzio della primavera guidata da una Madre dolorosa verso la resurrezione del Figlio e del tempo.
L'ora crepuscolare addensa le ombre della valle e accende le menti e le fracchie. Si snodano le teorie dei mobili fuochi proporzionatamente dalle più piccole alle più grandi; e quest'ora non tollera altre luci se non quelle, dirò così, naturali: fragorose luci rosse e gialle delle fracchie assommate poi in alto nel pallore tacito e incantato del plenilunio.

Aprono lo splendente corteggio fanciulli con le faci a braccio o su di un asse portatile; e i volti illuminati meglio evocano la compunzione di un antico rito. I giovani che oppongono il loro agile vigore alla violenza delle fiamme più audaci e gli uomini tutti, come astati, come opliti, in un ordine di movimenti e di comandi, bene s'intonano alla puntuale snodatura di gesti precisi e musicali, simile ad una pagina punteggiata di note il cui suono è più vedibile che udibile, o, ancor meglio, come una geometrica trascrizione in bassorilievo. L'ardore del procedimento comanda quest'ordine perché appunto la fiamma portatile, incedendo, si ravviva e abbella: è un imporsi con violenza, solennità e maestà.
La fiamma passando ha parola, figura e personalità, canta e si esalta, come canta, si esalta ed esulta l'intero popolo.
Come in un tessuto sonoro spicca il rilievo di un isolato melodico, cosi colpisce l'umana rauca voce dei giovani addetti al traino nel campo del fuoco assordante per i metallici ordigni.
Fuoco, fumo, sferragliar di ruote, stridìo di catene, acre odore di petrolio e di legna, voci basse e lugubri di incitamento e di eccitazione ci danno la certezza dell'Inferno.
Ma se l'odore del petrolio che serve a stuzzicare la fiamma nel tardo legno ci dispiace, il naturale odore del fumo e della legna aiuta la evasione verso i camini di campagna e la quiete dei focolari oltre l'orrendo pigiarsi della folla dolcemente spaventata. (Il manzoniano senso di star solo quanto più la folla ci soffoca e opprime è così vivo in questa sera di vago sgomento, come un piacere desiderato e temuto).

La diabolica spavalderia delle fiamme invade la piazza da dove le fracchie, già disposte, si accingono poi a percorrere la via principale. E' un fremito potente di luci e di calore che investe tutte le case del borgo e si dilata nella valle; e il cielo, incendiato dai rossi bagliori, si esalta in un'improvvisa aurora boreale. Le fiamme portatili sono belve uscite, una volta tanto, dal serraglio. Ammirando le più grosse, veri castelli di tonnellate di legna, si pensa a frementi scatti di tigri e a ruggiti di leoni, con minacce che hanno qualcosa di perentorio e di assoluto. E domatori, con i loro comandi e incitamenti secchi ed energici, appaiono gli uomini intenti al carriaggio di queste macchine infernali.
Nasce così in tutti una strana, profonda riverenza per il fantastico corteggio che sfida ogni più esplosiva invenzione surrealista. L'ordine delle cose e della logica è infranto da quei mostri che impongono di vivere per qualche ora in un ordine e in un mondo diversi.
E come le fiamme, ingigantite e dilatate, invadendo tutto lo spazio libero, si torcono, si allungano, si frantumano e disperdono in alto in nuvolette di fuoco, dopo aver lambito case e volti, che si ritraggono clamorosamente impauriti, così si eccita e sfrena la mente degli astanti. Allora il cuore diventa anch'esso una face che, accelerando i battiti nel petto, quasi tenta di esplodere. Si vive un'ora tanto insolita, a cui spesso nell'anno la memoria ritorna volentieri, ma con un gusto dei giochi proibiti e col vizio segreto di un giocatore d'azzardo.
Le rive umane, uomini, bimbi, vecchi, donne che costeggiano questo fiume di fuoco vivo, hanno qualcosa che è insieme di ferino e di divino.

I volti assiepati e illuminati a scatti dal fuoco, nell'unica sensazione collettiva, si fondono in un essere mostruoso dai mille occhi allucinati; e pupille mobilissime e bocche voraci bevono calore e luce come uno stregante elisir. Quando infine l'incandescente strepito dei carriaggi si è allontanato, il selciato è ricoperto da un tappeto di carboni tra cui scintillano, effimeri rubini, le ultime miche delle fracchie: E' un blu di notte in cui splendono queste scintille come in un cielo capovolto. Cielo e stelle come riflessi in una profonda acqua palustre. Al clamore delle fiamme succede un attimo di silenzio, che quasi recide i nervi, come quando cade improvviso l'assordante stridìo delle sirene. Corrisponde al vuoto, allo spazio, al deserto che si crea tra le squadre dei diabolici portatori di fuoco e all'inizio della parte religiosa della vera processione.
Si attende che si spengano gli sparsi e sfrigolanti tizzi perché si possa procedere, ma vi è anche, oltre che un semplice spazio vuoto, una pausa necessaria nel contrappunto di questa processione: cesura dovuta al necessario transito dal profano al sacro. Perché insistente sale dal fondo di una memoria colta il ricordo di un rito antico; e forse, più che antico, primigenio quanto l'uomo.
E' l'aspirazione dell'uomo di sempre, che, dal fondo delle tenebre invernali, tende verso il calore e la luce primaverile; ed è anche personificazione stessa della primavera, della figlia di Cerere e della sposa di Plutone: Persefone, signora delle ombre, lascia l'infero sposo e si avvia verso la madre biondazzurra di messi e di fiori. Persefone, signora delle ombre, si fa luce con un regale corteggio lungo i cunicoli infernali che sboccano verso il bei lume sereno della terra. E primavera e persefoni e orfei ed euridici, che siano, s'avviano tutti al canto della vita anche tra gli anfratti delle valli garganiche, in una delle quali è sito San Marco in Lamis, il paese delle fracchie.

Clamori di fuoco, urli di comandi, eccitazioni di cuori e di menti, residui di paganità che solo il sano cuore del popolo sa contemperare e fondere, sempre, in un profondo senso di "pietas". Ma in quello spazio vuoto, in quella pausa necessaria nel registro della processione, in quella palude stigia che riflette un cielo impossibile, cade la paganità per un più vero senso religioso che avanza nella fioca luce di vaghi lampioncini. La paganità permane solo in rapporto ad un costante senso poetico della natura del nostro popolo; e i miti classici non restano che come sedimenti archeologici, cari forse solo alla presunzione dello storico ricercatore.
A noi giova, per il conforto di una sera, questa grazia festiva, questo dono, come frutto rigoglioso di stagione prodotto dallo stesso popolo.
Sono i palloncini che seguono, con le tinte più tenui o delicate delle veline, rese calde dalle luci interne, come tanti fuochi fatui emigrati da un irreale cimitero. La bizzarria delle forme, intenta a imitare scene della Passione e sagome di monumenti e templi, viene anche essa tenuta a freno da un commovente motivo ispiratore: il sempre sorgivo senso della pietà. L'ingegnosità artigiana tocca punte di buon gusto estetico e di sbrigliata capacità di espressione. Una lunga preparazione e tanta cura per il godimento di un'ora sola; e in questo lusso e in questo sperpero la nobiltà e la dannazione del talento italiano, che anche a San Marco è così speso. E se i lampioncini con la loro vaghezza, in tono minore, fanno da eco luminosa e gentile al clamore plebeo delle precedenti fracchie, sono essi un dolce preludio alla parte religiosa della processione. Sono fosforescenti orifiamme e bandiere di luci meglio intonate al devoto momento; preludio a un canto fermo e disteso nell'ora notturna. Infatti l'eccitazione iniziale prodotta dal fuoco è quasi obliterata, quando avanzano poi i confratelli in camici che ricordano il colore del cielo notturno e del manto della Vergine. Sono ragazzi e adulti che in bella linea e con in mano la cristiana candela accesa, che fa da contrasto alle pagane tede iniziali, intonano il jacoponico "Stabat" e ci trasportano nel desiderato e riposante clima di devozione.
Fanno essi la realtà presente del vero sentimento religioso.

Se le fiamme hanno scosso ed eccitato i sensi, questo canto invece penetra e fa vibrare le più intime latebre del sentimento.
Generazioni e generazioni hanno cantato per le stesse vie e con le stesse note lo stesso inno, con quella costanza di ritmi e di cadenze che testimonia una presenza numinosa e ci assicura l'eternità.
E ci ricordiamo così dei cari morti, dei nostri morti, di tutti i morti, di tutta l'umanità presente e viva e il suono di lei in uno scorrere infinito delle cose, della natura, degli uomini e di Dio.
Ecco perché il visitatore noterà al passaggio dell'Addolorata, buona statua non priva di artistico decoro, una serie di colloqui, anzi di dialoghi, tra ogni singola persona della folla e la Madonna. Scoprirà questi segreti dialoghi fatti di gesti o di braccia tese verso la statua e poi ritirate per un bacio sul dorso della propria mano, che copre la bocca come per racchiudere una divina parola afferrata al volo; preghiere, invocazioni, gemiti, parole frante, sospiri e pianti di conforto. Quante nostre donne è facile sorprendere così con la mano tesa e ritratta al bacio, e gli occhi umidi e la tremante bocca parlante come in dolce delirio, senza curarsi più dei circostanti.
Sono questi i momenti più fervidi e commoventi: ognuno ha qualcosa da dire al regale passaggio di una Donna che riassume i dolori e le ansie di tutti, non privi, però, della speranza in una luminosa resurrezione.
E poi la folla, la folla tutta di centinaia, di migliala e migliala di persone che cantano tutte a una voce; eppure, singolarmente, ognuno esprime col canto la sua pena.
Canto corale di sera che desta i morti e i vivi, gl'inferi e i santi. Sgorga a onde dal cuore dell'uomo e dalla via del borgo, si fonde col canto del vento nelle prime tenere foglie di primavera e se lo porta via il silenzio negli abissi azzurri. Desta gli uccelli nei nidi e gli angeli nei cieli, perché questi miracoli compie la fede.
Folla immensa, paurosa: è una liquida umanità fatta fiume che canta e che geme. Uno e tutti: non numeri ma spiriti fatti uno.
E i gemiti e i canti, lontanando e morendo a poco a poco, li copre e inghiotte la palude della notte. Ma non si avverte un senso di fine, anzi un senso inaugurale di nuova vita.
Questa sera, si toccano i vivi segni del tempo e delle generazioni come tanti anelli di una catena interminata. Forse il mistero si offre a noi come una valva aperta in grazia della bontà di un popolo che esegue i suoi riti con sentita solennità.
Un'ora, una sera, che vale il più bello appuntamento d'amore.


- Testo tratto da "Gargano segreto" di Pasquale Soccio - San Marco On Line.
- Foto tratte dal web.